venerdì 3 luglio 2009

un buen retrato de casa nostra

La smemoratezza italiana non dipenderà dal fatto che le nostre tragedie sono così oscure? Difficile capire, ricordare.
"Le racconto un fatto. Nel 1998, dopo lo spettacolo sul Vajont, dei ricercatori della Columbia University mi invitano in America a un congresso mondiale di esperti in catastrofi italiane. C'è quello che ha dedicato la vita al maremoto di Messina, il signor Terremoto del Friuli, il professor Alluvione di Alessandria e io sono lì perché vogliono farmi una domanda: con questo territorio che brucia, allaga, frana, trema, con i terroristi, la mafia, le stragi, siamo il Paese della futura Eurolandia con il maggior numero di sfighe. Ma come abbiamo fatto a restare vivi?".

E lei cosa ha risposto?
"L'unica cosa che mi è venuta in mente. Conosco famiglie che il morto in casa non ce l'hanno da tantissimo tempo e ne conosco altre che passano da un guaio all'altro e tu non osi metterti nei loro panni, chiederti: "Ma come fanno?". Non siamo un Paese piano, con tradizione di nazione, ma piuttosto di localismo, geograficamente difficile, socialmente non compatto, linguisticamente unificato di recente, politicamente ancora legato ai campanili: come fai a sopravvivere a una tale somma di catastrofi? Hai due opzioni, elabori il lutto o lo rimuovi".

Pare che la seconda prevalga.
"È chiaro. Non possiamo focalizzarci su un sentire comune perché, anche se alcune cose potrebbero unire, la somma delle tragedie è tale che la rimozione serve a ritrovare una quotidianità e un futuro. Nel tempo breve è comprensibile, ma, alla lunga, determina l'incapacità di essere adulti. E c'è un altro fatto: quando c'è una nuova disgrazia si rievocano le precedenti in un album nostalgia che mischia le cose risolte e quelle irrisolte. Per dire, la ricostruzione del Friuli non è come quella dell'Irpinia: non impari la lezione se non sai qual è quella giusta. Non si costruisce così il futuro".

E come si costruisce?
"Tre elementi caratterizzano una società: l'economia, la politica e la cultura, che non è un panda o il Fondo unico dello spettacolo, ma il sentimento di un popolo. L'arroganza dei poteri economici e politici consiste nel credersi in grado di condurre da soli una società, ma è la cultura che permette di capire ciò che è impagabile, non negoziabile. Non si possono fare ciclici appelli al bene comune se non c'è un patto di fondo a tenerci insieme. Obama ha regalato un futuro agli americani perché il suo discorso non è solo legato alla sfera politica: ha rifondato in modo credibile l'immagine di un futuro, di una speranza. Quel popolo sarà naïf, ma è più capace di rifondarsi, perché è più giovane".

Mentre noi siamo decrepiti?
"Fuori tempo massimo per rimettere mano al nostro patrimonio culturale: quando lo nominiamo pensiamo al Colosseo o altre cose da vendere ai turisti. Sembriamo Totò nel dopoguerra con gli americani. Di questo passo, l'unica alternativa è: diventare come Bali o Mauritius?".

Marco Paolini